Godot oggi non verrà, ma verrà domani.
Ma anche nella seconda scena, nonostante l’attesa, Godot non si presenta e manda il solito messaggero ad informare che verrà domani.
Ai due che lo aspettano non resta altro che lamentarsi del freddo, della fame e del loro stato esistenziale; litigano, pensano di separarsi ma alla fine restano fermi al palo.
#QuietQuitting?
No. Samuel Becket che alla fine degli anni ’40 ha messo in scena quello che oggi viene raccontato come trend topic HR.
Andare al minimo, mantenere un profilo basso, fare quello che ci viene chiesto ma senza troppo coinvolgimento, lasciare che il nostro talento si conservi per un’altra occasione.
Dopo la Great Resignation il trend per “stare bene” è il Quiet Quitting.
Beh, ve lo diciamo, a costo di apparire antipatici: non siamo d’accordo.
Non sempre se “A” non funziona, allora “non A” può funzionare.
Se lavorare molto e con dedizione non mi dà felicità, neppure lavorare il minimo indispensabile e con scarso coinvolgimento mi renderà felice.
Il talento, infatti, si conserva e si moltiplica solo quando lo si usa.
Se mi impedisco di esercitarlo sto creando le migliori condizioni per essere infelice.
Il mancato esercizio del talento individuale provoca sicuramente un danno al sistema perché non genera e non dà valore, ma nel contempo crea un danno anche a noi stessi, impedendoci di sentirci soddisfatti e contenti.
Non stiamo dicendo che per essere felici al lavoro occorra fare straordinari ed essere stressati.
Crediamo che per realizzare e far funzionare nuovi paradigmi di lavoro occorra il contributo attivo di ognuno.
Ciascuno di noi, invece che abdicare a sé stesso per uno stipendio, ogni giorno scelga di voler lasciare la sua impronta unica e originale in ciò che fà.
La felicità al lavoro, alla fine dei conti, è una scelta: è la più alta forma di rispetto verso se stessi e le proprie capacità.