C’è, a volte, un fraintendimento gentile, ma profondo.
L’idea che includere significhi semplicemente aggiungere.
Aggiungere una quota.
Un profilo “diverso”.
Un programma dedicato, una categoria da tutelare.
Un’etichetta rassicurante da apporre.
Ma includere è molto più che aggiungere. È espandere, è spostare il limite.
Per pensare, per agire, per decidere: abbiamo bisogno di limiti.
Tracciamo confini mentali e culturali per dare ordine al mondo, per orientare il nostro agire.
Il limite è la condizione essenziale del pensiero.
Ci dice fin dove possiamo arrivare — o fin dove crediamo sia possibile arrivare.
Inclusione, per noi, allora diventa questo:
tendere verso un nuovo spazio, espandendo il proprio sistema di riferimento.
Non per dissolverlo, ma per ampliarlo.
Non per negare i confini, ma per renderli mobili, permeabili, generativi.
L’inclusione non è accogliere chi è fuori. È mettere in discussione come abbiamo disegnato il “dentro”.
È il gesto radicale di fare spazio a qualcosa che cambia la forma, vedendo ciò che prima non sapevamo nemmeno di poter considerare.
Perché quello che prima non era nemmeno pensabile, ora può essere reale.
I limiti sono mappe, non gabbie
Includere non significa cancellare le distinzioni,
ma metterle in dialogo per far emergere un nuovo significato comune.
È riconoscere che il mio modo di pensare, agire e decidere
può espandersi senza perdere identità.
Anzi, trovandone una più ricca.
Inclusione è quando il pensiero evolve
e il senso di appartenenza cresce — per chi arriva, ma anche per chi accoglie.
Perché il nuovo che si genera non poteva esistere senza entrambi.
Over the D&I, in fondo, è proprio questo
Un invito a superare la logica della quota,
a smettere di misurare l’inclusione solo per categorie,
e iniziare a valutarla per impatto, ascolto, possibilità create.
È un invito a fare cultura, non solo policy.
A scegliere l’espansione, anche quando è scomoda. Perché proprio lì nasce l’inedito.
Inclusione è espansione.
E ogni espansione è un atto creativo che tende all’infinito.